Micro…riflessioni

a cura di Gabriele Giliberti

 

L’infinitamente piccolo

 

Un tempo gli scienziati sapevano quasi niente di quasi tutto; oggi sanno quasi tutto di quasi niente” (1). Una frase che rende perfettamente l’idea di come gli scienziati spinti dalla curiosità e dal desiderio di conoscenza hanno nel tempo aumentato esponenzialmente le conoscenze del mondo, ma al tempo stesso capito che gli orizzonti conoscitivi si spostano sempre più lontano dalla loro portata, rinforzando la consapevolezza che siamo ben lontani dall’aver capito tutto.

Mi dà l’idea di un uomo rinchiuso in una piccola stanza che cerca nuovi spazi vitali, iniziando a rompere una parete, e quando ci riesce trova una nuova stanza adiacente e dopo averne goduto per un po’ la novità, decide di continuare nella ricerca e rompere una nuova parete, ampliando di volta in volta la sua dimensione vitale ma contemporaneamente intuendo che il processo non avrà mai fine e quello che all’inizio sembrava un obiettivo definitivo era invece solo l’apertura verso la comprensione che oltre quel muro c’era un mondo inimmaginabilmente complesso.

Meno male che Socrate non conosceva il copyright, altrimenti oggi lo chiameremmo So©rate e suoi discendenti vivrebbero ancora di rendita, dal momento che è da circa 2500 anni che lui sostiene la forza dell’ignoranza, intesa come consapevolezza della immensità della non-conoscenza e come movente del desiderio di conoscere, considerandosi l’unico sapiente, perché unico a sapere di non sapere, di contro ai presuntuosi sofisti.

È ancora ai giorni nostri si disputa in maniera simile sul futuro della scienza, se è vero che uno dei fisici più importanti del pianeta come Stephen Hawking considera la conoscenza scientifica vicina al punto di arrivo e un premio Nobel per la chimica come Ilya Prigogine la considera invece prossima ancora al punto di partenza, di un nuovo orizzonte culturale aperto dalla scoperta dell’instabilità dinamica e dei fenomeni caotici, che ci obbliga a rivedere le leggi della scienza classica e a “non poter più credere a un cosmo determinato e predittibile”, basato su “un determinismo che pone le leggi e le condizioni iniziali” (2).

Certamente Socrate, come anche il sottoscritto, si schiererebbe in questo secondo partito, magari senza gli eccessi metafisici descritti, ma con la convinzione che forse è proprio questo lo spirito con cui fare scienza oggi: avere cioè sempre la consapevolezza che ciò che si conosce non è che una piccolissima parte della realtà, che rappresenta un’entità conoscitiva di difficile gestione e impossibile esaurimento, e peraltro sempre interpretata da modelli soggetti ad essere smentiti.

Sembra allora che niente è cambiato dagli albori della tradizione filosofica occidentale ad oggi, invece qualcosa è cambiato se è vero che oggi viaggiamo in aereo e spediamo e-mail, se è vero che anche la Terra dopo miliardi di anni di riposo ha pensato bene di fare qualche giro intorno al sole per mantenersi in forma e che l’acqua, sotto una spinta secessionista, si è scomposta in H e O, e l’idrogeno a sua volta in un protone e un elettrone, che non si sa bene ancora cosa e dove sia.

È cambiato che l’umanità ha intrapreso un viaggio verso dimensioni nuove, di tipo razionale più che percettivo, quali l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, apparentemente agli antipodi tra loro e invece entrambi in un’unica direzione, quella della caduta della barriera dimensionale dettata dal nostro nudo percepire.

Un viaggio verso l’infinitamente piccolo o grande che sia, sembra destinato a non avere fine, perché man mano che avanziamo il piccolo sembra sempre più enorme e il concetto stesso di “piccolo” si sposta ogni volta un po’ più in là, forse perché anche il concetto di “limite” è un limite, un’idea dell’uomo che potrebbe non avere riscontro nella realtà fenomenica.

Questa avventura non può che sconvolgere e ribaltare il nostro concetto di ordine di grandezza. Per me una formica è sempre stata un insetto piccolissimo, che nemmeno vedrei se non fosse per le urla di mia moglie, però è affascinante pensare che un atomo di idrogeno, più piccolo di circa 100 milioni di volte, abbia al suo interno un rapporto spaziale tra nucleo e movimento dell’elettrone paragonabile ad un campo di calcio, con al centro del campo il nucleo (e, anche se non lo sappiamo ancora, già intuiamo che anche nel nucleo ci sarà un rapporto spaziale simile tra un qualcosa e un qualcos’altro…); e poi già lo vedo questo elettrone, alto più o meno un femtometro (3), che corre sudato dappertutto in spazi sconfinati o forse è solo seduto da qualche parte ma nessuno lo vede tale è lo spazio visivo da esplorare.

Dobbiamo forse smettere di pensare che camminare per un chilometro è troppo e considerare che c’è qualcosa che è lungo uno yottametro, 1024 metri (una distanza che la luce percorre in 200 milioni di anni), e che soprattutto siamo in grado di misurare, e che c’è qualcos’altro che è lungo uno yoctametro, 10-24 metri, che viene il mal di testa solo a provare a pensare a quanto sia piccolo, e che anch’esso siamo in grado di misurare! Chissà se la scala degli ordini di grandezza in realtà non sia circolare e i due infinitamente, grande e piccolo, non si incontrino in un punto adimensionale (del resto anche la dimensione è solo una convenzione). Dobbiamo forse smettere di pensare che una pausa al lavoro di 10 minuti è troppo corta, se pensiamo che ci sono delle particelle, i poveri bosoni W e Z (3), che vivono mediamente 10-25 secondi, un tempo di circa 10000 miliardi di miliardi inferiore rispetto ad un battito della palpebra (e che non credo riescano anche a fare delle pause), e che soprattutto noi siamo in grado di misurare questo tempo! E che dire del disordine della mia libreria, se penso che invece in 18 cm3 ci sono 1023 molecole di acqua, che se fossero fogli di carta posti l’uno sull’altro uscirebbero dall’Universo, costrette forse a girare a targhe alterne in una piccola immensità, come se grande e piccolo diventano quasi sinonimi, man mano che scomponendo il piccolo ci rendiamo conto che è incredibilmente grande e conquistando il grande ci rendiamo conto che forse è ancora un po’ piccolo.

Risulta evidente che per misurare queste dimensioni intellegibili e non certo percettibili, gli scienziati debbano rinunciare al cronometro, al righello e alla bilancia e adoperare modelli, mediatori cioè tra il campo teorico e quello empirico, sempre più astratti della realtà; e noi osservatori e fruitori di queste misurazioni dobbiamo sempre più fidarci. Infatti come scrive Abel Rey, docente di Storia e filosofia alla Sorbona all’inizio del XX secolo, a proposito della fisica di Einstein, allo stadio attuale della storia della fisica, non si può esitare a riconoscere che “la fisica procede in modo razionale e non più sperimentale” e ancora “la scienza fisica è il bisogno imperioso e necessario di comprendere le esperienze e renderle intellegibili” (4). Oppure, per riprendere il pensiero di Prigogine, “le leggi fisiche corrispondono ad una nuova forma di intellegibilità”, che presuppongono la fine delle certezze di un mondo deterministico verso un mondo arbitrario (5). Se poi vogliamo tornare nell’antica Grecia, già Platone vedeva nella distinzione tra la forma più bassa di conoscenza (doxa) e quella più alta (episteme o scienza) un passaggio dal sensibile al soprasensibile, verso una forma di conoscenza basata solo sulla pura intellezione (6).

Necessariamente il variare degli orizzonti culturali e il dilatarsi dei margini estremi degli ordini di grandezza presuppone un discostarsi dalla conoscenza comune, dalle dimensioni percepite dagli organismi, sia direttamente che con i più comuni strumenti di misura, verso una conoscenza puramente scientifica, che diventa in alcuni casi pericolosamente fideistica. Già nel pensiero di Thomas Hobbes, filosofo inglese del XVII secolo, veniva delineata questa distinzione tra una conoscenza “comune” o “originaria”, fondata sull’esperienza sensibile, e una conoscenza “scientifica” o “filosofica”, che deriva ed è rielaborazione di quella comune, proponendosi di spiegare le cause della realtà. Una conoscenza, quella filosofica, figlia di convenzioni della comunità dei dotti, che permette di fare previsioni della realtà in base ad una analisi rigorosa delle relazioni causa-effetti e che permette, sempre a detta di Hobbes, alle popolazioni occidentali di godere di un maggior benessere, rispetto alle popolazioni di America e Africa in quanto strumento di vantaggi pratici (3). Questo modo di sentire e di valorizzare il metodo scientifico, nato dall’empirismo e ripreso nel Positivismo dell’Ottocento, arriva certamente ai giorni nostri e pervade il nostro sentire comune, che attribuisce alla conoscenza scientifica un alone di “certezza” e vede la conoscenza comune come debole e limitata, facendoci sentire molto piccoli e un po’ impauriti nell’oceano della conoscenza, o meglio della non-conoscenza. Come se il variare del concetto di ordine di grandezza abbia coinvolto anche noi stessi…

Un viaggio scientifico così intenso e veloce da mettere in crisi l’essenza stessa della scienza che, apparentemente non bisognosa di alcuna riflessione critica, ha invece iniziato a chiedersi chi sia o dove stia andando, sviluppando nel corso del Novecento una intensa discussione epistemologica sul cosiddetto contesto della scoperta (i meccanismi con cui la scienza scopre nuovi fenomeni), della giustificazione (come gli scienziati giustificano i risultati) e della demarcazione (tra una teoria scientifica e un tentativo non riuscito di elaborarne una). Infatti teorie come la meccanica quantistica e la relatività hanno ribaltato il letto di certezze “deterministiche” su cui poggiavano gli scienziati, ingenerando delle perplessità critiche su rapporto che le teorie stesse hanno con l’esperienza: seguono procedure idonee ad assicurare un efficace controllo empirico oppure sono invenzioni arbitrarie e fantastiche? La risposta è sempre più difficile, man mano che il viaggio verso l’infinitamente piccolo e grande richiede l’utilizzo di strumenti non più empirici quanto congetturali. E ciò fa riflettere sulla natura stessa della scienza, vista da alcuni sempre con valore positivo soprattutto per le potenzialità pratiche e applicative, da altri con valore negativo come conoscenza artificiale se non alienante nella sua specializzazione e tecnicizzazione (7).

È la riflessione epistemologica può arrivare al paradosso che Karl Popper, uno dei più illustri pensatori del secolo scorso, può porre il limite di demarcazione tra scienza e non scienza nella falsicabilità, dicendoci che è scientifico solo ciò che è falso, lasciandoci nell’imbarazzo di non poter replicare che ciò è falso, perché rischiamo di convalidare in questo modo la sua tesi…

Ma in fondo mi chiedo dove è la certezza e dove l’incertezza; qualche giorno fa una mia collega di lavoro, ma non addentro alle discipline scientifiche, intervenendo in una discussione scientifica, dice “io l’unica cosa certa che so è che l’acqua è H2O, poi non so altro”; io ho risposto “secondo me no, perché la cosa certa è l’acqua, H2O è solo una sua interpretazione, suscettibile ad errore”. La conclusione di questa riflessione potrebbe essere che forse, dal mio punto di vista, sarebbe preferibile considerare distinte la scienza, intesa come teorie scientifiche in continua evoluzione, e la realtà, come entità che percepiamo con i nostri sensi, sia quelli personali e soggettivi sia quelli messi a disposizione dal progresso della scienza stessa (altrimenti io senza occhiali non vedrei nemmeno in faccia il mio interlocutore).

Lungi da me non tener conto degli effetti del progresso scientifico e tecnologico, che si può disputare se sia costituito o meno da verità assoluta o modelli interpretativi variabili e falsificabili, che a volte deve fronteggiare accese controversie e slittamenti di paradigmi di riferimento, tanto per citare Thomas Khun (3), ma che è certamente tangibile e che ci ha cambiato la vita, spesso migliorandola.

Ma se anche un certo Albert Einstein pensa che “I concetti della fisica sono libere creazioni dello spirito umano, e non sono, nonostante le apparenze, determinati unicamente dal mondo esterno”, allora mi piace pensare che la realtà fenomenica sia sempre quella percepita dai nostri sensi: che per quanto sappiamo che è una serie di reazioni termonucleari di fusione dell’idrogeno, consideriamo il sole come una romantica palla infuocata; che per quanto è utile farci qualche radiografia, continuiamo a pensare che le radiazioni sono solo quelle che vediamo nell’arcobaleno; che per quanto i miei canarini a volte iniziano a fischiare nervosamente e di concerto, continuiamo a considerare che quando non sentiamo niente, vuol dire che c’è silenzio; che anche se sappiamo che un elettrone è lungo un femtometro, per noi un millimetro continua a essere piccolissimo; che anche se ci hanno convinto del contrario, a noi la Terra continua a sembrarci ferma ed è il Sole che sorge a levante per tramontare a ponente. Mi piace pensare ad una realtà che rimette noi stessi al centro dell’universo percettivo, lasciando la scienza a girarci intorno, anche quando ci sembra vera e quando ci fa vivere meglio, e che rimette al centro della scala degli ordini di grandezza, quelli a noi più familiari.

Ma la conclusione è anche un’altra, e cioè che a volte è molto utile per aprire la mente e vedere le cose da tutti i lati piuttosto che sempre dalla stessa facciata, oltre che piacevole, fermarsi a riflettere su quello che si fa e sul suo significato (perché in fondo la scienza è il mio lavoro).

Ma se per Victor Hugo “L’amore vero si dispera o va in estasi per un guanto perduto o per un fazzoletto trovato, e ha bisogno dell’eternità per la sua devozione e le sue speranze. Si compone insieme dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo.”, non sarà per caso che alla fine della storia sentimento e scienza siano simili e possano andare d’accordo?

 

Riferimenti bibliografici:

(1): Prof. Vincenzo Balzani, docente di Chimica generale, Università di Bologna. Il Consiglio Europeo delle Ricerche: La ricerca di frontiera. Bologna, 20 giugno 2006.

(2): Il tempo come principio di sensatezza del cosmo. Intervista a I. Prigogine di Vera Fisogni (www.aparterei.com).

(3): Wikipedia, enciclopedia libera online (www.wikipedia.it).

(4): Pietro Redondi, Epistemologia e storia della scienza, Feltrinelli editore 1977.

(5): Ilya Prigogine, La fine delle certezze, Bollati Boringhieri editore 1997.

(6): Giovanni Reale, Platone, www.donatoromano.it, sito di divulgazione filosofica a cura di Donato Romano.

(7): Alberto Pasquinelli, Il problema dei fondamenti della conoscenza scientifica, La Chimica nella Scuola 1979.